Marco Balzano, classe 1978, è uno scrittore, ma anche e soprattutto un insegnante liceale (e credo che debba essere un ottimo docente) e quindi a stretto contatto con i giovani studenti, che sui banchi di scuola apprendono non solo contenuti, ma anche e soprattutto, si spera, metodi. Nell'introduzione al suo saggio, che a mio avviso dovrebbe essere letta all'inzio di ogni anno scolastico agli studenti in erba, Balzano invita i lettori a non "subire" passivamente il linguaggio, ma a viverlo attivamente, a considerare le parole per quello che sono, dei "corpi da maneggiare" con cura e cautela, a metterle in controluce per vederne in profondità la filigrana, non accontendandoci della sola scorza esteriore. Sarebbe insito proprio in questo atteggiamento di scarsa attenzione nei confronti delle parole, nel loro utilizzo più superficiale, senza una reale conoscenza e comprensione del loro significato e del loro potenziale, il rischio della banalizzazione e della conseguente degradazione. Ecco allora che l'autore ci consiglia di allenarci ad applicare nel nostro vivere quotidiano il metodo della ricerca etimologica, disciplina empirica e trasversale, strettamente connessa alla filologia e alla linguistica, per apprendere un'abitudine che possa aiutarci a scoprire ed illuminare, oltre che ad organizzare, il nostro personale universo lessicale, quello che più ci appartiene e ci esprime e rappresenta.
Ma la riflessione di Marco Balzano va ancora più in profondità e mette in luce una questione molto importante relativa al linguaggio e alla fascinazione che esso esercita, soprattutto in coloro che tentano di arginarne la crisi, ossia la consapevolezza che in gioco c'è una "scommessa impossibile", come la definisce a ragione, ossia quella di "voler abbracciare una volta per tutte il senso ultimo delle parole e non riuscirci mai", perché la lingua rivela senza mai svelare tutto. Rimane sempre una zona in ombra, che è il riverbero muto, ma allo stesso tempo eloquente, anche se inafferrabile, dell'originario e ancestrale rapporto tra le parole e le cose. In questa inesauribilità di senso e di significato si radica l'essenza della lingua, che è materia viva e in continuo mutamento, che porta con sé stratificazioni di orizzonti semantici che narrano chi siamo stati e chi siamo diventati. Perché comprendere il linguaggio significa darsi l'opportunità di vivacizzarlo e rinfrescarlo iniettando nuova linfa vitale nelle parole, rendendole portavoce di nuove esigenze e mutazioni sociali.
Il filosofo e psicanalista Massimo Recalcati parte proprio da questa considerazione per dare avvio al suo saggio edito da Feltrinelli nella collana Varia Pasolini. Il fantasma dell’origine: “Ho incontrato il testo di Pasolini dopo aver incontrato da ragazzo il suo corpo morto, ferocemente assassinato”. Questo incontro particolare ha suscitato in lui, come in molti giovani della sua generazione, un’ “empatia fisica, emotiva, viscerale”, che lo ha indotto a leggerne l’opera, partendo dalle sperimentazioni in dialetto friulano, lingua materna che viene prima della lingua nazionale e che Recalcati condivide con l’intellettuale di Casarsa.
Da questo primo approccio, il filosofo lacaniano ha indagato tutta la produzione di Pasolini, intrecciandone l’analisi dell’opera allo studio della biografia sulle tracce del fantasma inconscio che lo ha perseguitato per tutta la vita: il fantasma di un’Origine irrimediabilmente perduta, coincidente con la “purezza dei corpi incorrotti dall’alienazione della società dei consumi”, in contrasto con il divenire storico, che ha deturpato e snaturato il carattere religioso e mitico di quello spazio intonso e irrecuperabile, di cui non riesce a compiere il lutto. Di qui l’ossessione di Pasolini per il popolo contadino, che parla il dialetto friulano, e poi per quello delle borgate romane, del popolo africano e indiano, in un percorso a ritroso verso le origini incorrotte dell’umanità. Questa matrice rousseauiana del pensiero politico di Pasolini si fonde con l’esperienza intima e singolare della sua vita di figlio “sequestrato” dall’amore di una madre, che a sua volta coincide con il primo e purissimo amore dell’Origine, da cui non riesce a separarsi. Sarebbe questa incapacità di staccarsi dalla Cosa materna che avrebbe spinto Pasolini alla spasmodica ricerca di molteplici corpi senza anima da amare esclusivamente nella carne.
Secondo Recalcati, il fantasma regressivo di Pasolini, foriero di una idealizzazione del passato, scatena tuttavia una lacerazione, una divisione, che problematizza questo rapporto e che ne coinvolge necessariamente anche la riflessione politica e sociale. Si spiegano così i celebri versi de Le ceneri di Gramsci in cui il poeta si dichiara apertamente in accordo, ma anche in contrasto con il segretario del Pci cui vuole rendere omaggio. Lo scandalo del contraddirsiè una lacerazione che lui vive sul suo stesso corpo, che dimora in lui e lo rende schiavo di due spinte antitetiche, verso direzioni opposte: “Preservando il mito rousseauiano della vita come assoluto Bene […] e della storia come la sua necessaria degradazione, egli non può che restare diviso fra la trascendenza di un desiderio che lo sospinge incessantemente e disperatamente in avanti strappandolo dalla Cosa originaria e il rimpianto struggente e melanconico nei confronti di questa perdita irreversibile dell’Origine, che lo mantiene costantemente ripiegato all’indietro”, da sempre caduto da cavallo, ricalcando, in una dimensione laica, ma priva della spinta vitale della conversione e schiacciata dal trauma della ripetizione, il destino di Paolo di Tarso, che è al contempo Saul e Poalo.