È stata senza dubbio un' esperienza di lettura inusuale, perché la scrittura di Atwood è davvero singolare e ciò ha sortito pareri differenti e a volte discordanti tra noi partecipanti al gruppo. Qualcuno non ha apprezzato quello che ha definito come "eccessivo cinismo". Io invece l'ho adorata proprio per questa penna sarcastica e tagliente, che non edulcora e non perdona e che rende gli esseri umani colmi di mancanze, come è nella loro natura.
Questi dieci racconti mi hanno costretta a fare i conti con tutta una serie di tematiche che sento intime e che sono foriere per me di flânerie mentali che, per loro natura, non giungono mai ad una meta precisa, ma generano pensieri, anche in contrasto tra di loro, in una catena quasi infinita.
Tra queste tematiche un posto di primo piano è occupato dall'identità, che passa anche dal nome e dai nomignoli che una persona si dà, come accade a Kat, che passa dall'essere una bambina romantica quando era Katherine, all'assumere le rotondità salutari della liceale Kathy, fino a riconoscersi in Kat, una sorta di "gatta di strada, dal nome affilato come un'unghia". Un' identità che vacilla nel gioco caleidoscopico di rimandi che abbiamo anche dall'Altro, che ci costringono a metterci in discussione, a riscrivere la nostra storia. Leggendo le ultime righe del racconto Zii mi sono chiesta come avrebbe ri-narrato la propria autobiografia Sally alla luce di uno sguardo diverso da parte degli zii e non ho potuto fare a meno di appuntare a fondo pagina questi versi di Alda Merini: Mi sveglio sempre in forma e mi deformo attraverso gli altri.
Anche la maternità è una tematica che percorre come una sorta di fil rouge i racconti di questa raccolta. Il diventare madre e l'esserlo non è sempre, o meglio non è quasi mai la favola che ci raccontano, edulcorata da ogni contrasto emotivo, ma può essere anche una sorta di "colpa", di "errore", di "leggerezza" da scontare tutta la vita, talvolta "conseguenza" di un amore che può asfaltarci con la potenza di un "rullo compressore" o avvinghiarci in relazioni tossiche che ci svuotano di vitalità. La maternità passa anche e soprattutto dal corpo, che si fa protagonista di diversi racconti in tutta la sua carnalità e anarchia rispetto ai desideri e alle aspettative di chi lo abita. Un corpo che si appesantisce e che è costretto a "portare in giro come un fagotto la carne che cresce" dentro di esso. Quel "troppo pieno" del corpo può essere causa di angoscia. Allo stesso tempo può rivelarsi difficile distaccarsi da un elemento anomalo e considerato ad esso estraneo e di aspetto orribile come una cisti ovarica soprannominata "palla di pelo", come succede a Kat. Palla di pelo è cresciuta dentro di lei, che è consapevole che è così brutta che solo una madre potrebbe amarla.
Come già avevo scritto parlando dell’album precedente, negli anni lo stile di Edoardo si è fatto sempre più cantautorale e la sua penna è ora autoriale e riconoscibile e si fa sempre più chiara l’idea che la musica sia per lui l’unico mezzo per resistere e per dare sfogo alle proprie emozioni, alle gioie e alle frustrazioni, all’entusiasmo, ma anche alla rabbia, alla delusione, al disincanto. Se però l’album precedente racchiudeva numerosi pensieri relativi al mondo in cui viviamo, denunciando talvolta le falle di un sistema abulico e disfunzionale, in questo nuovo lavoro la voce si fa più lirica e la dimensione più intima. Il focus qui è più ristretto e si concentra sulla sfera privata, sulla sua vita, sui suoi sogni e soprattutto sulle relazioni che lo hanno reso l’uomo che è oggi. I testi di La lunga strada sono infatti tutti autobiografici, scritti solo da Edoardo, così come gli arrangiamenti, ad accezione di alcuni brani che lo hanno visto collaborare con Enrico Cipollini. Le musiche risentono ovviamente dell’influenza del rock’n roll, il genere più amato da Edoardo, quello su cui si è formato e regno indiscusso dei suoi idoli, con numerosi tratti pop. Si passa da ritmi più incalzanti e grintosi, dove la batteria detta il tempo o simula il battito del cuore, a pezzi in cui sono gli accordi della chitarra e le note del pianoforte a coccolarci, a ballate più lente e melodiche, a brani con suoni più aperti e dilatati, che sembrano espandere lo spazio intorno a noi. Non mancano nemmeno toni malinconici e più introspettivi, per quelle tracce in cui il ricordo si fa nostalgico e doloroso. Musiche e parole percorrono infatti lo stesso sentiero e portano nella stessa direzione, verso il mondo interiore di chi canta.
Come scrive in un breve testo di presentazione dell’album, le riflessioni e le confessioni a se stesso che danno forma alle dieci tracce che compongono l’album sono nate durante un viaggio in macchina in una sera nevosa di gennaio, quando Edoardo si reca da Piacenza a Ferrara per suonare in un locale. Mentre è alla guida, perso tra i suoi pensieri, nella mente iniziano a vorticargli tutta una serie di ricordi, forieri di numerose domande sul senso di questo suo andare. Si chiede se tutti gli sforzi che compie ogni volta che deve tenere un concerto da qualche parte abbiano ancora un senso e passa in rassegna i volti e i ruoli delle persone che lo hanno accompagnato o abbandonato in tutti questi anni. Si interroga sui suoi desideri e le sue aspirazioni, su quanto è riuscito a realizzare e quanto invece sia rimasto ad uno stadio embrionale. Sorge anche legittimo il dubbio che alcuni sogni non lo rappresentino più e la domanda che mi pare di leggere in filigrana a tutte le tracce è: “Ho ancora voglia e bisogno di fare musica?”.
Marco Balzano, classe 1978, è uno scrittore, ma anche e soprattutto un insegnante liceale (e credo che debba essere un ottimo docente) e quindi a stretto contatto con i giovani studenti, che sui banchi di scuola apprendono non solo contenuti, ma anche e soprattutto, si spera, metodi. Nell'introduzione al suo saggio, che a mio avviso dovrebbe essere letta all'inzio di ogni anno scolastico agli studenti in erba, Balzano invita i lettori a non "subire" passivamente il linguaggio, ma a viverlo attivamente, a considerare le parole per quello che sono, dei "corpi da maneggiare" con cura e cautela, a metterle in controluce per vederne in profondità la filigrana, non accontendandoci della sola scorza esteriore. Sarebbe insito proprio in questo atteggiamento di scarsa attenzione nei confronti delle parole, nel loro utilizzo più superficiale, senza una reale conoscenza e comprensione del loro significato e del loro potenziale, il rischio della banalizzazione e della conseguente degradazione. Ecco allora che l'autore ci consiglia di allenarci ad applicare nel nostro vivere quotidiano il metodo della ricerca etimologica, disciplina empirica e trasversale, strettamente connessa alla filologia e alla linguistica, per apprendere un'abitudine che possa aiutarci a scoprire ed illuminare, oltre che ad organizzare, il nostro personale universo lessicale, quello che più ci appartiene e ci esprime e rappresenta.
Ma la riflessione di Marco Balzano va ancora più in profondità e mette in luce una questione molto importante relativa al linguaggio e alla fascinazione che esso esercita, soprattutto in coloro che tentano di arginarne la crisi, ossia la consapevolezza che in gioco c'è una "scommessa impossibile", come la definisce a ragione, ossia quella di "voler abbracciare una volta per tutte il senso ultimo delle parole e non riuscirci mai", perché la lingua rivela senza mai svelare tutto. Rimane sempre una zona in ombra, che è il riverbero muto, ma allo stesso tempo eloquente, anche se inafferrabile, dell'originario e ancestrale rapporto tra le parole e le cose. In questa inesauribilità di senso e di significato si radica l'essenza della lingua, che è materia viva e in continuo mutamento, che porta con sé stratificazioni di orizzonti semantici che narrano chi siamo stati e chi siamo diventati. Perché comprendere il linguaggio significa darsi l'opportunità di vivacizzarlo e rinfrescarlo iniettando nuova linfa vitale nelle parole, rendendole portavoce di nuove esigenze e mutazioni sociali.
Il filosofo e psicanalista Massimo Recalcati parte proprio da questa considerazione per dare avvio al suo saggio edito da Feltrinelli nella collana Varia Pasolini. Il fantasma dell’origine: “Ho incontrato il testo di Pasolini dopo aver incontrato da ragazzo il suo corpo morto, ferocemente assassinato”. Questo incontro particolare ha suscitato in lui, come in molti giovani della sua generazione, un’ “empatia fisica, emotiva, viscerale”, che lo ha indotto a leggerne l’opera, partendo dalle sperimentazioni in dialetto friulano, lingua materna che viene prima della lingua nazionale e che Recalcati condivide con l’intellettuale di Casarsa.
Da questo primo approccio, il filosofo lacaniano ha indagato tutta la produzione di Pasolini, intrecciandone l’analisi dell’opera allo studio della biografia sulle tracce del fantasma inconscio che lo ha perseguitato per tutta la vita: il fantasma di un’Origine irrimediabilmente perduta, coincidente con la “purezza dei corpi incorrotti dall’alienazione della società dei consumi”, in contrasto con il divenire storico, che ha deturpato e snaturato il carattere religioso e mitico di quello spazio intonso e irrecuperabile, di cui non riesce a compiere il lutto. Di qui l’ossessione di Pasolini per il popolo contadino, che parla il dialetto friulano, e poi per quello delle borgate romane, del popolo africano e indiano, in un percorso a ritroso verso le origini incorrotte dell’umanità. Questa matrice rousseauiana del pensiero politico di Pasolini si fonde con l’esperienza intima e singolare della sua vita di figlio “sequestrato” dall’amore di una madre, che a sua volta coincide con il primo e purissimo amore dell’Origine, da cui non riesce a separarsi. Sarebbe questa incapacità di staccarsi dalla Cosa materna che avrebbe spinto Pasolini alla spasmodica ricerca di molteplici corpi senza anima da amare esclusivamente nella carne.
Secondo Recalcati, il fantasma regressivo di Pasolini, foriero di una idealizzazione del passato, scatena tuttavia una lacerazione, una divisione, che problematizza questo rapporto e che ne coinvolge necessariamente anche la riflessione politica e sociale. Si spiegano così i celebri versi de Le ceneri di Gramsci in cui il poeta si dichiara apertamente in accordo, ma anche in contrasto con il segretario del Pci cui vuole rendere omaggio. Lo scandalo del contraddirsiè una lacerazione che lui vive sul suo stesso corpo, che dimora in lui e lo rende schiavo di due spinte antitetiche, verso direzioni opposte: “Preservando il mito rousseauiano della vita come assoluto Bene […] e della storia come la sua necessaria degradazione, egli non può che restare diviso fra la trascendenza di un desiderio che lo sospinge incessantemente e disperatamente in avanti strappandolo dalla Cosa originaria e il rimpianto struggente e melanconico nei confronti di questa perdita irreversibile dell’Origine, che lo mantiene costantemente ripiegato all’indietro”, da sempre caduto da cavallo, ricalcando, in una dimensione laica, ma priva della spinta vitale della conversione e schiacciata dal trauma della ripetizione, il destino di Paolo di Tarso, che è al contempo Saul e Poalo.